Scritti al tempo del confino.
Abbiamo seguito il suggerimento di Papa Francesco: "Non sprecate questi giorni difficili".
L'arte della grafia in Gabriele d'Annunzio
Il rito della scrittura in un maestro del simbolo
di Maurizio Biondi - Presidente A.G.A.F.
"Bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita di un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui" (D’Annunzio, 1953, pag. 37). Da questa massima fondamentale contenuta nel romanzo "Il Piacere", programma e ambizione di vita di un Gabriele d'Annunzio venticinquenne, occorre partire quando si esamina la grafia di colui che è stato anche un maestro del linguaggio simbolico.
Artista a tutto tondo, dotato di un sofisticato senso della bellezza e di una consapevolezza artistica totale, nell’impostazione del suo gesto grafico egli rappresenta appieno la valenza simbolica e gestuale della scrittura manuale (cfr. Biondi, 2018, pag. 155).
D’Annunzio recupera l’origine pittografica del segno grafico utilizzando gli strumenti propri della scrittura, la matita e la carta, come farebbe un pittore o un incisore. Un procedimento reso esplicito nelle prime pagine di una delle sue ultime opere, il "Notturno".
Nel 1916 il poeta subisce un trauma violento alla fronte durante un volo di guerra, con conseguente distacco della retina dell’occhio destro e viene costretto, immobilizzato e bendato, in un letto, al fine di evitare la perdita completa della vista (cfr. Chiara, 1978, pp. 302 – 303; Martinelli, 2001, pp. 120 - 126).
In questa condizione di cecità, per scrivere il suo Comentario delle tenebre, dovrà riconsiderare gli strumenti abituali ed adattarli alla nuova condizione: "Imparo un’arte nuova" (D’Annunzio, 1941, pag.3), (Figura 1).
Nel descrivere l’operazione d’Annunzio ci confessa il suo "Disperato amore della parola incisa per i secoli" (D’Annunzio, 1941, pag. 8), segnala la natura “sacra” del segno scritto e offre un’affascinante testimonianza della sua arte grafica, rinnovata dalla sofferenza fisica e morale:
"Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più in basso i piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata. Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati sugli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta. (…).
M’era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito; ne m’era possibile vincere l’antica ripugnanza alla dettatura e il pudore segreto dell’arte che non vuole intermediarii o testimonii fra la materia e colui che la tratta. L’esperienza mi dissuadeva dal tentare a occhi chiusi la pagina. La difficoltà non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti.
Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su foglie disperse al vento del fato.
Sorrisi di un sorriso che nessuno vide nell’ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta (la figlia Renata nda) tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua, al lume di una lampada bassa. (…) .
Quando la sirenetta s’accosta al mio capezzale col suo passo cauto e mi porta il primo fascio di liste eguali, tolgo pianamente le mie mani che da tempo riposavano lungo le mie anche. (…) .
Subito le mie mani trovano i gesti, con quell’istinto infallibile che è nelle membrane delle nottole quando sfiorano le asperità delle caverne tenebrose.
Prendo una lista, la palpo, la misuro. Riconosco la qualità della carta dal lieve suono. Non è quella consueta che mi fabbricavano a mano pagina per pagina gli artieri di Fabriano ponendovi la filigrana della mia impresa che ora mi sembra tremenda come un supplizio perpetuo. È liscia, un poco dura, tagliente ai margini e agli spigoli. È simile a un cartiglio non arrotolato, simile a uno di quei cartigli sacri che i pittori mettevano nelle loro tavole.
V’è un che di religioso nelle mie mani che lo tengono. Un sentimento vergine rinnova in me il mistero della scrittura, del segno scritto. (…) .
Sento sulle mie ginocchia la mano della pietosa. Le sollevo leggermente per ricevere la tavoletta. È per me oscurato come una tavoletta votiva. La lista v’è distesa. Fra il pollice, l’indice e il medio prendo il cannello. Il medio ha tuttora il solco del lavoro ostinato. Nulla dies sine linea. (…).
La mano soppesava la materia. La materia aveva colore, rilievo, timbro.
La penna era come il pennello, come lo scarapello, come l’arco del sonatore. Temperarla era un piacere glorioso.” (D’Annunzio, 1941, pp. 3 – 8), (Figura 2).
Dunque d’Annunzio, anche per quel che concerne la scrittura, riesce a tenere fede all’impegno, sovrumano, di rendere ogni espressione della sua vita un’opera d’arte.
Quando si esamina un suo scritto un aspetto risulta evidente: la precisione dell’impaginazione testimonia il calcolo preventivo dell’impostazione degli spazi, esattamente come usa fare un pittore dinanzi alla tela bianca. Calcolo manifesto nella lettera qui rappresentata (Figura 3), dove le tre righe finali appaiono come frutto di un ripensamento.
Altra considerazione riguarda la spontaneità della scrittura che, pur risultando accurata, non presenta alcun aspetto di artificiosità. Vale per il gesto grafico del poeta l’assioma utile per misurare qualsiasi forma d’arte, letteraria o figurativa: ci può essere verità senza bellezza, ma non bellezza senza verità.
Ma in cosa consistono i doni che permettono a questo artista poliedrico di affrontare e vincere una sfida così ardua? La dimensione gestuale della grafia, dovuta al movimento della mano espressivo della fisiologia e della psiche dello scrivente, ci fornisce la risposta (cfr. Vels, 2013, pag. 43).
L’indagine grafologica inerente la grafia dannunziana, compiuta tenendo conto del metodo morettiano (cfr. Palaferri, 2010), in questo caso si concentra su un gruppo specifico di segni che consentono di risalire alle fonti della personalità artistica di Gabriele d’Annunzio e contribuiscono a comporre un contesto grafico assolutamente coerente ed omogeneo.
Osserviamo innanzi tutto una chiara visione della realtà interiore ed esteriore che comprende una evidente capacità di analisi introspettiva: il segno chiara si combina con il Largo tra Parole, molto spesso presente nelle grafie degli uomini predisposti dall’arte a prendersi lo spazio ed il tempo necessari per una ricerca spirituale fonte del loro potere creativo.
Quindi una sensibilità particolarmente vocata a captare l’armonia delle forme della natura: il segno elegante si sposa con il diseguale metodico del calibro creando un connubio di raffinata genialità. Il tutto è sostenuto da un’intensa energia vitale, da uno slancio audace (ardita) caratterizzato da un forte senso del ritmo: la pressione nutrita del segno si canalizza, senza che intervengano pause o interruzioni (fluida), in uno scattante carico di musicalità.
Non risulta difficile riconoscere in queste caratteristiche grafologiche la cifra artistica di Gabriele d’Annunzio: il poeta panico e sensuale, inesausto cantore dell’eros inteso nella sua accezione semantica di amore ed eroismo.
Superati i postumi della ferita al capo, che gli procura comunque la perdita della vista all’occhio destro, d’Annunzio riprende a servirsi, per scrivere, del fidato pennino a punta quadra (cfr. Navarra, 1983, pag. 63). Noto grafomane, riempie negli anni migliaia di pagine con una grafia originale, inconfondibile, che diviene modello stilistico per generazioni di italiani (cfr. Ciccolo – Manetti, 2012, pag. 39).
Sino alla fine, che lo coglie nel luogo più intimo di quella vasta, sorprendente dimora, ricca di riferimenti e percorsi simbolici, che è Il Vittoriale degli Italiani.
Nella piccola stanza denominata Zambracca, boudoir, spogliatoio, studiolo, nel quale sempre più spesso il poeta soleva consumare pasti frugali e sbrigare la corrispondenza, sulla scrivania ricolma di oggetti, troviamo uno splendido calamaio in argento creato appositamente per lui dall’orafo milanese Mario Buccellati, chiamato "Mastro Paragon Coppella orafo del Vittoriale", con due tartarughine in agata che si tuffano e riemergono dai coperchi delle vaschette per l’inchiostro (Figura 4).
In questo prezioso oggetto scrittorio l’elemento simbolico, rappresentato dalle tartarughe decorative, ci rappresenta una strenua volontà di sublimazione (cfr. Terraroli, 2001, pag. 187), l’aspirazione ultima ad una longevità artistica che sappia di immortalità.
Seduto alla scrivania della Zambracca il poeta si spegne la sera del primo marzo 1938, ma quella de "La fine di Gabriele d’Annunzio" è un’altra storia (cfr. Biondi, 2018, pp. 149 – 159).
Questa ci consegna alfine la figura di un artista perfettamente compiuto, la cui grande opera letteraria ha reso effettivamente immortale, mentre l’arte del gesto grafico, da lui magistralmente interpretata, lo ha trasformato in un eterno contemporaneo.
Scritto al tempo del confino, Pescara 31.03.2020
Riferimenti bibliografici:
1) Biondi M. (2018), La fine di Gabriele d’Annunzio, Scrittura. Rivista di problemi grafologici, 179, 149 -159.
2) Chiara P. (1978), Vita di Gabriele D’Annunzio, Milano, Arnoldo Mondadori Milano.
3) Ciccolo N. – Manetti E. (2012), Mussolini e il suo doppio. I diari svelati. Roma, Pioda Editore.
4) D’Annunzio G. (1953), I Romanzi della Rosa, Verona, Arnoldo Mondadori Editore.
5) D’Annunzio G. (1941), Notturno, Roma, Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”.
6) Martinelli V. (2001), La guerra di D’Annunzio, Udine, Paolo Gaspari Editore.
7) Navarra Q. (1983), Memorie del commesso di Mussolini, Milano, Longanesi & C.
8) Palaferri N. (2010), Dizionario grafologico morettiano, Urbino, Libreria “G. Moretti”.
9) Terraroli V. (2001), Il Vittoriale Percorsi simbolici e collezioni d’arte di Gabriele d’Annunzio, Milano, Maria Teresa Cipriani Produttore – Editore, Skira.
10) Vels A. (2013), Affrontare la pagina bianca, Scrittura. Rivista di problemi grafologici, 163, 41 - 58.
Riassunto:
L’ambizione di Gabriele d’Annunzio di rendere ogni espressione della sua vita un’opera d’arte si manifesta anche nella scrittura, nella quale esprime, compiutamente, l’origine pittografica del gesto grafico. Una valenza simbolica potentemente presente in colui che è stato, nella rappresentazione delle sue opere come della vita, un maestro del simbolo.
Biografia:
Maurizio Biondi Presidente dell’Associazione Grafologi Aternini Forensi A.G.A.F. Grafologo professionista. C.T.U. del Tribunale di Pescara. Ricercatore dannunziano.