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"Vivere ardendo e non bruciarsi mai": Gabriele d’Annunzio e le Avanguardie. -Convegno AGAF del 10 settembre 2019

Convegno A.G.A.F. del 10 settembre 2019 - Centenario dell'Impresa di Fiume di Gabriele D'Annunzio, Aurum Pescara

"Vivere ardendo e non bruciarsi mai": Gabriele d’Annunzio e le Avanguardie.

di Alessandra Scorcia - Consigliere A.G.A.F.


Il presente intervento si propone di rispondere a due quesiti: da un lato quanto l’oratoria dannunziana sia debitrice nei confronti della temperie culturale del suo tempo, dall’altro quanto l’intelligenza creatrice e poetica di D’Annunzio abbia stravolto le regole della retorica politica, proprio nel clima di sperimentazione di Fiume. Infatti nel fenomeno di Fiume si possono rintracciare le peculiarità artistiche del dadaismo, che nasce durante la Prima guerra mondiale, e incarna un’arte che rifiuta i metodi tradizionali e sperimenta nuove forme espressive. Inoltre D’Annunzio attinge all’estetica della velocità che ha come padre Mario Morasso, giornalista genovese, che nella sua La nuova arma (la macchina), 1905, designa il paradigma della primato estetico della potenza che si esprime quale conclusione del principio della volontà di dominio, destinata a governare la società.

Con Morasso nasce il titanismo nutrito di volontà di potenza di Nietzsche e di solitudine. Ne deriva l’ideale della “egoarchia” come rimedio alla minacciosa invasione di bruti, infatti Morasso afferma che: «l’uomo è tanto più grande quanto più è solo». Nel Manifesto di fondazione del futurismo, pubblicato su «Le Figaro» il 20 febbraio 1909, Marinetti non sarà da meno nel raccogliere l’eredità morassiana e, in generale, la nuova estetica, dichiarando: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. […] Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna». Dunque c’è una linea di continuità che va dall’estetismo di Morasso alla volontà di distruzione del passato di Marinetti, passando per D’Annunzio. Tuttavia, a differenza dei futuristi e del loro predecessore, D’Annunzio crede in un nuovo Rinascimento, in una nuova era della civiltà occidentale, addirittura superiore a quella dei greci e dell’età di Leonardo.

Analizzando gli articoli pubblicati da D’Annunzio sulle testate nazionali nei sedici mesi dell’avventura fiumana, dal suo esordio, con l’articolo pubblicato in due sezioni sulla «Gazzetta del popolo» l’8 settembre e la seconda il 13 settembre 1919, ma datata l’11; fino al dispaccio del Natale 1920, in cui denuncia la barbarie fratricida del “Natale di sangue”; è possibile notare che l’azione di D’Annunzio accompagni l’invenzione di un linguaggio nuovo, di un nuovo modo di comunicare, per accantonarne definitivamente uno ormai consunto.

Nell’esperienza fiumana l’azione è accompagnata da una parola creatrice, visionaria e persuasiva; nel clima di sperimentazione che pervade quei sedici mesi nasce il vocabolario oratorio di Gabriele d’Annunzio che costituirà il modello alto a cui attingerà la retorica fascista di seconda mano. Numerosi sono gli studi e le analisi della sua «eloquenza inebriante», così definita dal corregionale Benedetto Croce (L’ultimo D’Annunzio, 1935, p. 251). Come afferma lo storico americano Leeden, «lo stile politico di D’Annunzio - la politica della manipolazione delle masse, la politica del mito e del simbolo - è diventato una norma nel mondo moderno» (M. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, 1975, pp. 272-273).

Il linguaggio fiumano di D’Annunzio è permeato da influssi classicheggianti, colte reminiscenze dantesche, allusioni simboliche attinte, infine, anche dal bagaglio religioso, al fine di rendere più solenne la persuasione; crea un’inedita commistione tra sacro e profano, volta ad esaltare il sacrificio esasperato condotto fino all’estremo. La parola dannunziana, con la sua forza propulsiva, è capace di rappresentare l’azione e di eternarla, oscillando fra la semplicità medievaleggiante, l’invettiva ironica e la violenza satirica.

L’impeto e l’ardore che spingono il Comandante all’azione si traducono in una ritualità verbale che dà vita ad uno stile unico, da cui traspare la lealtà verso l’impresa e l’idea. Nella suadente oratoria fiumana dell’impresa ormai al suo epilogo s’insinua la malinconia per gli eroi caduti e purificati dalla morte, cui è capace di opporsi solo la memoria che è vivificata dalla parola eternatrice. La tristezza velata svela un D’Annunzio ormai incline a distaccarsi dal mondo, intuendone la fragilità e la vanità, per rifugiarsi nell’esilio dorato del Vittoriale.

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