L'impresa di Fiume e l'ardire nella scrittura.
Atti del Convegno A.G.A.F. 10 settembre 2019
Fiume dannunziana: "la Città di Vita".
di Elsa Abrugiato - Segretario e Tesoriere A.G.A.F.
1919-2019: un secolo di storia, un secolo di cambiamenti, un secolo di evoluzioni, il cui inizio è individuabile in un evento specifico e destinato a rimanere nella memoria: la presa della città di Fiume da parte del poeta-guerriero Gabriele d’Annunzio.
Una personalità poliedrica, carismatica, di rilievo nel panorama letterario del Novecento che sarebbe riduttivo incasellare in un’unica definizione: il poeta pescarese è il Vate, l’Eroe, il Comandante, l’Artista, uomo attentissimo alla propria immagine e al pubblico al quale si rivolge.
Senza questa premessa, non si potrebbe comprendere il clima psicologico ed esistenziale del decennio antecedente all’impresa fiumana, che può considerarsi l’atto finale dell’ impegno politico-sociale di Gabriele d’Annunzio.
Dalla tragedia “La Nave”, scritta nel 1907, che racconta la fondazione di Venezia, alle “Canzoni delle gesta d’oltremare” che risvegliano il patriottismo del poeta in occasione della guerra in Libia del 1911-1912, egli si fa interprete di quel sentimento nazionalistico ed espansionistico che il popolo italiano sopiva da tempo, annunciando i successivi tempi guerrieri in cui l’Italia sarà inevitabilmente chiamata a partecipare.
L’apice della sua responsabilità propagandistica tocca i vertici in occasione della “Orazione per la Sagra dei Mille”, il 5 maggio del 1915, circostanza che permette all’artista di rientrare in patria dal suo esilio francese. D’Annunzio si rivolge ad una folla numerosa ed acclamante, in un crescendo continuo e costante risveglia la coscienza popolare e il successivo sentimento di unione.
Nel perseguire instancabilmente gli obiettivi nazionalistici e quello stile ispirato ad una “vita inimitabile” che non si adatta alla mediocrità dell’uomo comune, il Vate decide di essere da esempio, non relegandosi al ruolo di un “letterato spettatore”, ma entrando in guerra come volontario all’età di oltre cinquanta anni. Tra le numerose operazioni che lo videro protagonista, un’eco importantissima ebbe sicuramente il Volo su Vienna (9 agosto 1918) che lo consacrò ad Eroe Nazionale.
Il Vate – che con la poesia aveva guadagnato la fama – e l’Eroe – che con la guerra aveva ottenuto la gloria – si fondono perfettamente nella figura del “Comandante fiumano”, superando i luoghi comuni degli archetipi politici fino ad allora utilizzati.
La presa di Fiume nasce come rivendicazione nazionalistica per riunire la città istriana alla madrepatria italiana e si trasforma successivamente in un vero atto rivoluzionario. Fu difatti un’ impresa del tutto avulsa dalle regole della politica e dal nuovo ordine mondiale costituito nell’immediato dopoguerra. D’Annunzio smuove gli animi delle persone come mai nessuno era riuscito a fare e a conquistare e governare una città – per ben 16 mesi – con il solo potere evocativo della parola. I suoi discorsi dal palazzo del Governo diventano rito, facendo fremere nel contempo gli animi di letterati e di semplici popolani.
“Sperimentare” era il verbo che meglio si addiceva alla nuova realtà fiumana: un polo attrattivo in cui potersi esprimere liberamente, in cui tutto era considerato lecito o comunque tollerato e che convinse molte personalità appartenenti al mondo scientifico, letterario, artistico a riversarvisi. D’altronde non avrebbe potuto essere altrimenti considerando le tante anime che componevano la figura del suo Governatore: libertario, anarchico, modernizzatore, che voleva creare una realtà basata sull’ideale della bellezza, beffandosi della miseria interiore di un mondo tipicamente borghese.
“La grande festa della Rivoluzione” più che altro subita dalla popolazione fiumana, fece sì che d’Annunzio annunciasse ufficialmente la proclamazione dello Stato indipendente l’8 settembre 1920. Ne venne redatta la Carta Costituzionale “più moderna di cui uno Stato Europeo si fosse mai dotato” affidata al sindacalista Alceste De Ambris mentre il poeta ne stabilì il nome: Reggenza italiana del Carnaro.
“La Città di Vita” come lui stesso amava definirla per quel entusiasmo che sempre vi si percepiva, per quel vivere sopra le righe che la contraddistingueva, fu un luogo dove tutto era lecito e la trasgressione la regola, una controsocietà sperimentale dove si viveva l’amore libero, il naturismo, l’omosessualità, le droghe e che sarebbe stata anticipatrice di quel clima politico-rivoluzionario vissuto nel Sessantotto. Sotto il governo del poeta-guerriero si intrecciano l’anima tradizionalista e quella trasgressiva, che riescono a coesistere insieme soltanto grazie al suo indiscusso carisma.
Un carisma che dovette arrendersi alla sua mancanza di vero senso politico quando - dopo gli scontri del cosiddetto “Natale di sangue” nel dicembre 1920, con le truppe inviate dal governo italiano a seguito del rifiuto delle condizioni stabilite dal Trattato di Rapallo - abbandonò per sempre la città istriana.
In quel Natale, tolse per sempre l’ultima maschera che aveva indossato, quella del Comandante, per tornare ad essere quello che era e che sarebbe sempre stato: un’ artista ineguagliabile che aveva fatto dei suoi ideali, l’Utopia della propria esistenza.
"Vivere ardendo e non bruciarsi mai": Gabriele d’Annunzio e le Avanguardie.
di Alessandra Scorcia - Consigliere A.G.A.F.
Il presente intervento si propone di rispondere a due quesiti: da un lato quanto l’oratoria dannunziana sia debitrice nei confronti della temperie culturale del suo tempo, dall’altro quanto l’intelligenza creatrice e poetica di D’Annunzio abbia stravolto le regole della retorica politica, proprio nel clima di sperimentazione di Fiume. Infatti nel fenomeno di Fiume si possono rintracciare le peculiarità artistiche del dadaismo, che nasce durante la Prima guerra mondiale, e incarna un’arte che rifiuta i metodi tradizionali e sperimenta nuove forme espressive. Inoltre D’Annunzio attinge all’estetica della velocità che ha come padre Mario Morasso, giornalista genovese, che nella sua La nuova arma (la macchina), 1905, designa il paradigma della primato estetico della potenza che si esprime quale conclusione del principio della volontà di dominio, destinata a governare la società.
Con Morasso nasce il titanismo nutrito di volontà di potenza di Nietzsche e di solitudine. Ne deriva l’ideale della “egoarchia” come rimedio alla minacciosa invasione di bruti, infatti Morasso afferma che: «l’uomo è tanto più grande quanto più è solo». Nel Manifesto di fondazione del futurismo, pubblicato su «Le Figaro» il 20 febbraio 1909, Marinetti non sarà da meno nel raccogliere l’eredità morassiana e, in generale, la nuova estetica, dichiarando: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. […] Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna». Dunque c’è una linea di continuità che va dall’estetismo di Morasso alla volontà di distruzione del passato di Marinetti, passando per D’Annunzio. Tuttavia, a differenza dei futuristi e del loro predecessore, D’Annunzio crede in un nuovo Rinascimento, in una nuova era della civiltà occidentale, addirittura superiore a quella dei greci e dell’età di Leonardo.
Analizzando gli articoli pubblicati da D’Annunzio sulle testate nazionali nei sedici mesi dell’avventura fiumana, dal suo esordio, con l’articolo pubblicato in due sezioni sulla «Gazzetta del popolo» l’8 settembre e la seconda il 13 settembre 1919, ma datata l’11; fino al dispaccio del Natale 1920, in cui denuncia la barbarie fratricida del “Natale di sangue”; è possibile notare che l’azione di D’Annunzio accompagni l’invenzione di un linguaggio nuovo, di un nuovo modo di comunicare, per accantonarne definitivamente uno ormai consunto.
Nell’esperienza fiumana l’azione è accompagnata da una parola creatrice, visionaria e persuasiva; nel clima di sperimentazione che pervade quei sedici mesi nasce il vocabolario oratorio di Gabriele d’Annunzio che costituirà il modello alto a cui attingerà la retorica fascista di seconda mano. Numerosi sono gli studi e le analisi della sua «eloquenza inebriante», così definita dal corregionale Benedetto Croce (L’ultimo D’Annunzio, 1935, p. 251). Come afferma lo storico americano Leeden, «lo stile politico di D’Annunzio - la politica della manipolazione delle masse, la politica del mito e del simbolo - è diventato una norma nel mondo moderno» (M. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, 1975, pp. 272-273).
Il linguaggio fiumano di D’Annunzio è permeato da influssi classicheggianti, colte reminiscenze dantesche, allusioni simboliche attinte, infine, anche dal bagaglio religioso, al fine di rendere più solenne la persuasione; crea un’inedita commistione tra sacro e profano, volta ad esaltare il sacrificio esasperato condotto fino all’estremo. La parola dannunziana, con la sua forza propulsiva, è capace di rappresentare l’azione e di eternarla, oscillando fra la semplicità medievaleggiante, l’invettiva ironica e la violenza satirica.
L’impeto e l’ardore che spingono il Comandante all’azione si traducono in una ritualità verbale che dà vita ad uno stile unico, da cui traspare la lealtà verso l’impresa e l’idea. Nella suadente oratoria fiumana dell’impresa ormai al suo epilogo s’insinua la malinconia per gli eroi caduti e purificati dalla morte, cui è capace di opporsi solo la memoria che è vivificata dalla parola eternatrice. La tristezza velata svela un D’Annunzio ormai incline a distaccarsi dal mondo, intuendone la fragilità e la vanità, per rifugiarsi nell’esilio dorato del Vittoriale.
Arte e Ardimento nella grafia di Gabriele d’Annunzio.
di Maurizio Biondi - Presidente A.G.A.F.
Buon pomeriggio e grazie di cuore per la vostra partecipazione e attenzione. Abbiamo visto come l’impresa di Fiume rappresenti, in estrema sintesi, per Gabriele d’Annunzio, un’utopia durata 16 mesi. Egli coltivò anche un’altra utopia, quella di fare della sua stessa vita un’opera d’arte. Forse l’approssimazione più vicina tra questo tentativo, che definirei sovraumano e la sua realizzazione possiamo individuarla nella scrittura del poeta.
Effettueremo una ricognizione grafologica sulla grafia di d'Annunzio, emblematica della valenza simbolica e gestuale della scrittura manuale, concentrando la nostra attenzione su due aspetti significativi e controversi della vita e della personalità del poeta: l'arte e l'ardimento. La valenza simbolica in d’Annunzio si esprime inchiostrando il foglio, con il suo pennino a punta quadra, così come un pittore inciderebbe con acido e bulino una lastra di rame per realizzare un’ acquaforte. Non a caso la sua grafia è stata definita, utilizzando un termine tratto dalla storia dell’arte, “scultorea” (E. Manetti, Mussolini e il suo doppio I diari svelati, 2012, Pioda Editore, pag. 39).
Occorre precisare come, quelle esposte, saranno, essenzialmente, le risultanze di un approfondito esame, condotto utilizzando il metodo ideato dal padre della grafologia italiana Girolamo Moretti. Andiamo quindi a vedere quali sono i segni grafologici riconducibili alla grafia di d'Annunzio e quali i significati conseguenti, riguardanti il temperamento e l'intelligenza, tenendo conto di un concetto fondamentale della scienza grafologica: lo studio di un singolo segno o della somma dei vari segni non producono alcun risultato attendibile. È soltanto la combinazione dei segni e quindi lo studio del relativo contesto grafico a consentire una corretta analisi della personalità. Come affermava il capostipite della grafologia francese Crepieux Jamin: "Non è una singola nota che da' una melodia, ma una combinazione di note".
La grafia di Gabriele d'Annunzio è: chiara, elegante, fluida e scattante, diseguale metodicamente, dritta, ardita e sostenuta da una pressione nutrita (segue la descrizione di ogni singolo segno, con l'attribuzione dei relativi significati grafologici e la combinazione tra gli stessi). L’analisi complessiva ci consegna la figura di un’ artista a tutto tondo, dotato di un sofisticato senso della bellezza. Un uomo la cui consapevolezza artistica è totale.
Una consapevolezza che giunge da lontano come evidenziato dalla particolare costruzione della sottolineatura o paraffa presente nella firma del giovane poeta. Seguendo le indicazioni di Max Pulver, il grafologo svizzero che ha introdotto la psicanalisi nella grafologia, vediamo la paraffa immergersi, come un' antenna, nel grande mare dell'anima dell'artista a scandargliarne l'inconscio. L'approfondimento dedicato alla natura dell'arte dannunziana evidenzia la sua chiara visione interiore, frutto di una precoce capacità introspettiva. È questo il dono che contribuisce a fare di Gabriele d'Annunzio un' artista di valore assoluto, in grado di riconoscere e produrre bellezza dalla verità insita nell'essere umano. Nonostante una certa critica letteraria abbia cercato di archiviarlo come un poeta impressionista, pronto a cogliere ogni sollecitazione sensoriale e quindi dotato di una parola povera di interiorità (cfr. S. Guglielmino, Guida al Novecento, Milano 1971, Edizioni Principato, pag. 57).
Il focus dedicato all'ardimento ci consegna una qualità propria del temperamento dannunziano: il coraggio. La prorompente energia vitale di cui è dotato, disciplinata da una coerenza interiore che gli ha permesso di essere uno dei pochi intellettuali in grado di passare dalle parole ai fatti, costituisce la qualità del d'Annunzio valoroso combattente nella Grande Guerra. Nonostante il giudizio crociano che limita il suo contributo al conflitto ad un "semplice sfogo oratorio senza contenuto di etica sincerità" (G. Cristini, D’Annunzio e Croce “Pari nella diversità”, Chieti 1979, Solfanelli Editore, pag. 78).
Ultimo, ma non ultimo in termini di importanza, elemento da esaminare è la firma del d’Annunzio adulto: enorme, sottolineata, sintesi efficace delle caratteristiche riferibili all’artista e indice del suo enorme Ego. Arte e ardimento costituiscono i connotati dell' ultima interpretazione dannunziana nel grande teatro della vita: il Comandante fiumano. L'originale figura politica in grado di prendere e tenere avvinta a se una città con il solo potere della parola. Come si vede, la grafologia è in grado, attraverso lo studio della personalità condotto sui protagonisti della storia dell'umanità, di fornire un valido contributo alla storiografia nella costante opera di approssimazione alla verità.
Cosa rimane quindi di Gabriele d'Annunzio? Certamente la sua opera poetica, che lo ha reso immortale, ma anche la sua grafia: così viva ed espressiva, quasi che il Poeta sia presente, oggi, tra noi. Grazie.